Crociata Italica

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Rapporto del Prefetto di Milano al Ministero dell’Interno circa l’attività del settimanale “Crociata Italica” e del gruppo che vi faceva riferimento

SPUNTI DALL’OPERA DI DON CALCAGNO “LA SCURE ALLA RADICE”

La legge di Dio nell’Antico Testamento prescrive oltre che di amare e servire Dio con tutta la mente e con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze, di amare per amor di Dio che è verità, bontà, giustizia, il prossimo nostro come noi stessi, dicendo testualmente, come testualmente abbiamo anche noi qui riportato: amerai il prossimo tuo e odierai il tuo nemico. Gesù Cristo ha confermato nel Nuovo Testamento tutta la legge morale del Vecchio fino allo jota: non l’ha abolita, l’ha completata: aggiungendo precetti di perfezione che sublimano, non contraddicono quelli di Mosé e dei profeti; dicendo che il prossimo nostro è chiunque viene da Dio, ascolta la sua parola di verità e di vita e quindi giustizia nel senso più pieno della parola…comandano l’odio per i nemici suoi, cioè di Dio e quindi della verità e della giustizia poiché disse (è bene ripetere qui le sue parole) “chi ama più di me e non odia suo padre e sua madre e sua moglie…non è degno di me”. Si deduce apoditticamente dalle premesse bibliche suesposte che salvo il caso che sia dimostrato essere la patria nemica di Dio, caso in cui non sarebbe la patria vera: chi ama la patria ama Dio e chi non ama la patria non ama Dio; chi ama gli amici della patria ama gli amici di Dio e chi non ama gli amici della patria non ama i nemici di Dio; chi odia i nemici della patria odia i nemici di Dio e chi non odia i nemici della patria non odia i nemici di Dio…dunque ammessa la giustizia della causa dell’Italia, dell’Asse, del Tripartito in questa guerra, come credo di aver dimostrato nella seconda parte, è necessario concludere che gli italiani debbono odiare tutti i nemici in quanto tali e finché tali, ripeto, dell’Italia, dell’Asse e del Tripartito e di tutti gli aderenti a questo, come nemici della giustizia e quindi di Dio. Odio non solo lecito ma comandato”.

Note biografiche su Don Tullio Calcagno, redatte dall’ANPI di Roma:

Nacque a Terni il 10 aprile del 1899 da una famiglia povera. Entrò in seminario a 10 anni e nel 1924 tornato a Terni divenne parroco della cattedrale. Fu contrario al Concordato del 1929 e solo dopo un’attenta e lunga meditazione si persuase che la conciliazione fosse l’avvenimento che segnava il punto di partenza per un grande risveglio religioso che si sarebbe propagato in tutto il mondo. Dopo la vittoriosa campagna d’Etiopia divenne anche lui un grande ammiratore di Mussolini e sposò senza riserve la causa dell’Asse. Fu naturalmente favorevole all’ingresso dell’Italia in guerra nel giugno del 1940, e chiese alle autorità competenti di essere arruolato. La sua richiesta venne addirittura riprese e pubblicata su” Regime Fascista”, il giornale di Farinacci. Don Calcagno non venne accontentato e dovette accontentarsi di combattere, meno eroicamente, solo sulla carta stampata. Nel giugno del 1942 pubblicò a proprie spese il volume “Guerra di giustizia”, un inno al fascismo. L’opera evidenziava il disprezzo per i nemici dell’Italia e della Germania e sosteneva l’importanza della guerra mussoliniana che l’autore dichiarava “santa”. Il libro però era stato pubblicato senza l’Imprimatur, una sorta di visto della chiesa allora severamente imposto dal can. 1386 del codice di diritto canonico. Don Calcagno venne convocato presso la Congregazione del S. Ufficio il 30 giugno 1943, dove gli furono contestati duramente alcuni punti di “Guerra di giustizia”, soprattutto dove affermava: “Quando è lecito o doveroso uccidere, è lecito o doveroso odiare”. Gli venne imposto di non occuparsi più di tali argomenti, ma il suo silenzio durò poco. Dopo l’8 settembre diventa sempre più audace ed invia ad alcuni giornali una lettera dove ribadisce con ancora più forza le sue posizioni. A causa della sua intemperanza incorse nella sospensione “a divinis”. Questo provvedimento anziché portarlo sulla strada della redenzione, lo convinse invece di essere vittima di accuse ingiustificate da parte delle alte gerarchie ecclesiastiche. Dopo un po’ capisce però della gravità della condanna subita e chiede perdono. Da Roma gli fanno sapere che sono disposti ad un gesto di clemenza purché si impegni a non scrivere mai più di guerra. Testardo, si rifiuta e risponde no. Il 16 settembre 1943 lascia Terni e si reca a Bologna in cerca di protezione e amici guardandosi bene però dal raccontare la sua rottura con la Chiesa, anche perché la precarietà delle comunicazioni impedivano che il suo provvedimento di sospensione venisse conosciuto fuori dalla zona di Terni. A Bologna si unì con altri sacerdoti ideologicamente a lui vicini. Fallito il tentativo di dar vita ad un movimento cattolico, si recò a Cremona e cominciò a collaborare con “Regime Fascista” dove realizzò articoli di fuoco contro il Re traditore e Badoglio. Inoltre realizzò un manifesto del clero fascista dove chiedeva alla chiesa : il riconoscimento solenne del nuovo Stato Repubblicano Sociale come unico e legittimo successore dell’ormai ex Regno d’Italia; la collaborazione col governo repubblicano; rispetto e fraternità verso quelli che lui definiva “leali e generosi alleati germanici”. Farinacci rimase molto colpito da questo sacerdote dalla prosa violenta ma accattivante, in lui vedeva la persona adatta per riavvicinare la gente delle campagne e i giovani a Mussolini mescolando fascismo e religiosità. Decise allora di affidargli la direzione di un nuovo settimanale che si sarebbe chiamato “Crociata Italica”. Prima ancora che il giornale uscisse con il suo primo numero il vescovo di Cremona, mons. Cazzani, intervenne invitando i fedeli a diffidare di quel prete sospeso da ogni sacro ministero, e lo fece pubblicamente attraverso le pagine del giornale “L’Italia”, organo ufficiale della curia milanese. Questo messaggio venne successivamente ripreso da tutta la stampa cattolica, dai bollettini parrocchiali, venne affisso alle porte delle chiese e dei ritrovi diocesani e commentato durante le prediche. Un attacco di questa portata avrebbe spaventato chiunque, invece in Don Calcagno servì a rafforzare ancora di più la convinzione di essere perseguitato dalle istituzioni ecclesiastiche. Con una tattica già collaudata in precedenza invia una lettera supplichevole a mons. Cazzani, il quale però non fece una piega. Il giornale uscì comunque con il suo primo numero il 9 gennaio 1944, e per tutta la durata della guerra ribadirà la necessità che il clero fiancheggi con tutte le sue forze la lotta che avrebbe dovuto ridare all’Italia il suo prestigio e la sua unità.

Da quel momento in poi ci siamo occupati parzialmente delle sue vicende trattando di “Crociata Italica”, sarà dunque giusto riportare qualcosa circa la sua fine. Il decreto di scomunica del 24 marzo 1945 colpì lui ma anche l’intero giornale che fu costretto a chiudere. A Crema trova ospitalità presso amici, ma riconosciuto dai partigiani decide di chiedere aiuto al vescovo della città che lo nasconde presso il Seminario Comboniano. Qui tentano inutilmente di ricondurlo sulla retta via ma viene nuovamente trovato dai partigiani che lo arrestano. La sera del 27 aprile 1945 Don Calcagno viene condotto a Milano e rinchiuso nei sotterranei del Palazzo di Giustizia. Il 29 mattina, presso una scuola di viale Romagna, un tribunale del popolo lo condanna a morte. Caricato su di un camioncino è condotto a piazzale Susa, luogo dell’esecuzione. Prima che partano gli spari si pente e chiede umilmente che un prete lo conforti, ma ormai è troppo tardi per tornare indietro, gli resta solo il tempo di inginocchiarsi e fare il segno della croce. Dalla vicina chiesa di Santa Croce accorre un sacerdote che ha udito gli spari. Vede a terra il cadavere del confratello e gli somministra l’estrema unzione sub conditione. Su un carretto della nettezza urbana, la salma di Don Calcagno viene trasferita a Musocco e sepolta nel campo dei fucilati. Nel 1945 la salma verrà riesumata e traslata nel cimitero di Terni.

Bisogna dire che il resoconto dell’ANPI è piuttosto obiettivo, tranne sui particolari della sua morte, la fotografia riportata di seguito è infatti piuttosto eloquente.

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